Gemelle Kessler: suicidio come uscita di scena

Parla apertamente di questo tema il parroco della Chiesa Madre: don Mimmo Marrone

venerdì 21 novembre 2025 11.27
A cura di Anna Verzicco
Negli ultimi giorni, un particolare evento ha sconvolto e fatto parlare tanta gente, portando in primo piano un argomento delicato: il suicidio assistito.
Di questo tema ha voluto parlare apertamente don Mimmo Marrone, parroco della Chiesa San Ferdinando Re.

Un evento di dolorosa risonanza

"Ci troviamo di fronte a un evento di dolorosa risonanza: il duplice suicidio assistito di Alice ed Ellen Kessler. Questo gesto, compiuto da figure che per anni hanno rappresentato la leggerezza e lo spirito spensierato, travalica la cronaca e ci pone di fronte a uno specchio implacabile, riflettendo la hybris dell'uomo contemporaneo" , inizia così don Mimmo.

"La tragedia delle gemelle, amate come simboli di un'epoca, è stata rapidamente incasellata, quasi pacificata, sotto l'egida dell'autodeterminazione e della dignità. Si è cercato di elevare il suicidio a scelta 'libera' e 'coerente' con una modernità che pare non tollerare più il limite, la fragilità, o il declino. Ma è proprio in questa fretta di giustificazione che si annida la più pericolosa forma di tracotanza", continua don Mimmo insistendo sul tema della fragilità che sembra essere stato messo da parte dalla società contemporanea.

La hibris e l'onnipotenza tecnologica

"La hybris (tracotanza, arroganza) nel pensiero greco classico era il superamento del limite imposto dagli dèi, un atto che invariabilmente portava alla nemesis (la punizione divina). Oggi, abbiamo secolarizzato questo concetto, ma la dinamica rimane. L'uomo contemporaneo, saturato dalla retorica dell'individualismo e dell'onnipotenza tecnologica, sembra credere che non esista più alcun margine o limite alla sua volontà, nemmeno sulla vita e la morte".

Una distorsione etica sul suicidio assistito

"La filosofia sottesa a questa accettazione del suicidio assistito è che la vita sia un bene esclusivo dell'individuo, una merce di cui disporre a piacimento. L'individuo, in un atto di auto-adorazione, si pone come unico giudice e boia della propria esistenza, rifiutando l'idea che la vita sia un 'bene di tutti' che va protetto. L'antropologia padronale trasforma l'essere umano da creatura che riceve la vita come Dono a Dominus che ne dispone come merce – continua -quando l'accettazione del suicidio, anche se 'assistito', diventa un modello di dignità, si verifica una profonda distorsione etica. Non stiamo solo parlando di singoli drammi, ma di una sconfitta collettiva. È più facile offrire un farmaco letale che garantire una rete di supporto che convinca la persona che 'la tua vita vale fino in fondo' ".

Una vita fragile da non custodire?

"Rimuovere ogni cautela, ogni verifica che vada oltre la mera 'piena consapevolezza della scelta suicida' (come nell'esempio tedesco), rischia di spingere verso un abisso dove la vita fragile non è più un valore assoluto da custodire, ma un onere eliminabile. Questa hybris non è la forza dell'autonomia, ma la fragilità di una società che si arrende al dolore e alla disperazione".

Il vero ruolo che la società dovrebbe assumere

"Se la hybris dell'uomo è la pretesa di non avere limiti sulla propria esistenza, la virtus di una società civile deve essere quella di opporre a questa pretesa l'abbraccio incondizionato della cura e della protezione della vita in ogni sua fase, specialmente quella più precaria".

Un'assoluta padronanza della vita

"Non è sufficiente affermare che vogliamo scegliere di morire; la pulsione più profonda e inquietante del nostro tempo è quella di non permettere che la morte accada come evento naturale o destinale, ma di determinarne noi il momento preciso e sovrano.
Il nucleo di questa mentalità è la pretesa di assoluta padronanza della vita e sulla vita, dal suo evento sorgivo (il nascere, sempre più mediato dalla tecnica) a quello culminante (il morire).
La morte, in quanto fysis, è l'ultimo baluardo del non-dominabile. È ciò che sfugge al nostro controllo, il punto in cui la volontà umana incontra un limite insormontabile. La civiltà tecnica, votata all'eliminazione dell'imprevisto e del non-gestibile, non può tollerare un evento di tale portata che non sia stato precedentemente autorizzato.
Determinare il momento esatto del trapasso significa trasformare la morte da ricevimento (l'accadere) a produzione (il fare). Diventa l'ultimo, definitivo atto di volontà, una firma in calce all'esistenza per certificarne l'autonomia assoluta. In questo modo, l'individuo non soccombe al tempo o al decadimento, ma esercita la sua sovranità finale, trasformando la fragilità in un ultimo, drammatico gesto di potere.
Questa antropologia padronale riflette una visione ontologica in cui l'uomo non è più homo (essere mortale), ma dominus (padrone)".

La filosofia e la saggezza di riconoscere i propri limiti

"L'autodeterminazione, da principio di rispetto della persona, si muta in tirannia. Diventa l'obbligo di scegliere, anche quando si è più vulnerabili. Se il decidere è l'unica via per la dignità, implicitamente si svaluta l'esistenza di chi non può o non vuole più decidere, o di chi semplicemente resiste passivamente al suo destino biologico. La disperazione e la fragilità non sono più chiamate a sostegno, ma a giustificazione della propria eliminazione.
Voler 'programmare' la morte è un tentativo di espellere il tragico e il mistero dall'esistenza umana. La morte perde la sua funzione di limite che definisce il senso della vita. Essa non è più l'ombra che conferisce acutezza e valore al tempo, ma un fastidioso bug nel sistema, da rimuovere con un comando esecutivo.
Di fronte a questa hybris dispotica, la filosofia ci invita a riscoprire la sophrosyne, la saggezza che riconosce i propri limiti. La vera forza, la vera libertà, non risiede nell'atto di poter disporre della propria fine, ma nella capacità di custodire la vita altrui e la propria (come bene comune) anche quando la speranza svanisce e il corpo cede".

Una "società dello spettacolo"

"Se viviamo in una 'società dello spettacolo' (per usare una felice espressione situazionista), dove l'essere è indissolubilmente legato all'apparire e all'essere visto sulla scena, è inevitabile che anche il momento supremo – la fine – debba essere trasformato in una messa in scena curata e potente.
Nella logica dello spettacolo, la morte non può essere un evento grigio, anonimo, o, peggio, involontario. Deve essere, al contrario, un gran finale che sigilla e conferisce significato retroattivo a tutta l'esistenza:
L'atto di morire assistito è l'estremo tentativo di teatralizzare il proprio telos (fine). Non si muore per debolezza, ma per scelta risoluta. Si cerca una morte 'pulita', 'dignitosa' e 'controllata', che non sporchi la narrazione dell'Io con l'orrore del decadimento, della sofferenza non gestibile o dell'impotenza. È l'ultima opera di self-branding: la mia vita è stata sotto il mio controllo, e lo è anche la mia fine".

L' "uscita di scena" delle gemelle Kessler

"Pensiamo al caso delle gemelle Kessler, personaggi pubblici per antonomasia. La loro 'uscita di scena' è stata immediatamente interpretata, celebrata e replicata nei frammenti televisivi. La loro scelta non è rimasta privata, ma è stata assorbita e presentata dal medium (la TV/digitale) come un modello performativo di libertà. Questo trasforma il dramma in un messaggio pubblico, amplificando l'illusione che la morte volontaria sia l'atto di massima autenticità in un mondo altrimenti finto.
La società dello spettacolo detesta l'anti-climax, l'episodio noioso, la dissolvenza lenta e non voluta. La morte naturale, spesso lunga, confusa, e priva di dignità pubblica, è l'anti-climax per eccellenza. L'eutanasia (intesa in senso lato) offre la possibilità di un finale deciso, puntuale e memorabile, un colpo di scena che non lascia spazio all'ambiguità, garantendo che l'ultima impressione sia un'immagine di forza, non di fragilità.
Se la morte diventa l'ultimo atto performativo, stiamo davvero onorando la libertà della persona, o stiamo semplicemente obbligandola a produrre un'ultima, necessaria, finzione di dominio per non svalutare la sua intera esistenza agli occhi di una società che premia solo chi è padronale e dispotico persino sulla propria fine?"